La
giornata era plumbea; tutta la notte era piovuto, e le strade eran rigate da
rivoletti fangosi. Le acque della Cala torbide ed agitate si orlavano di una
spuma gialliccia; e le galee all’ancora si dondolavano sui fianchi. Per l’aria
si sentiva l’umidore freddo della stagione, e tutte le case intorno avevano un
color grigio pieno di tristezza. Il castello sorgeva sul porto, coi suoi
cannoni massicci, le sue bombarde, i suoi terrapieni coperti di un’erba verde,
che nell’ombra grigia di quel mattino invernale metteva una nota di gaiezza
primaverile.
Il
porto, a Piedigrotta e per la piazza che si estendeva innanzi al Castello, era
gremito di gente. I Giudei della Giudecca di Palermo si affrettavano a partire:
con loro quelli delle città interne dell’isola, venuti il giorno innanzi in
Palermo per quell’esodo doloroso.
Avevano
tutti il taled con la rotella rossa sulla spalla, le donne recavano il segno
cucito sul petto; aggiravansi in silenzio per la spiaggia, guardandosi mestamente,
guardando il mare, le galee, l’orizzonte, poi, dall’altro lato, le torri, le
cupole, le case, i monti lontani. Di quando in quando giungeva una frotta di
Giudei stanchi, infangati; venivano da qualche lontana Giudecca; i compagni li
accoglievano in silenzio, senza muoversi dal posto; si guardavano, scotendo il
capo, e ogni nuovo fratello che sopravveniva, aumentava la fierezza del dolore
universale.
In
disparte gli ufficiali del governo sopraintendevano all’imbarco: i soldati
castigliani appoggiati alle alabarde, guardavano senza mostrar commozione
alcuna; intorno, frammisti agli ebrei si aggiravano i cittadini, alcuni mossi
della curiosità, altri punti da pietoso sentimento, altri dall’amicizia.
Venne
l’ora. Essi non avevano robe da caricare sulle galee; il re non aveva lasciato
altro a loro che le vesti che avevano indosso, e un miserabile assegno, per non
gravarsi la coscienza di averli fatti morire di fame. Qualcuno recava con sé
alcune masserizie, legate in un fazzoletto, e reggeva su la spalla l’involto
infilato a un bastone.
Cominciarono
a entrar nelle barche. Alcuni vinti dall’emozione sentivano empirsi gli occhi
di lacrime, e romper in singhiozzi il petto; altri nascondevano la faccia tra
le mani; pochi conservavano una certa fierezza, celavano l’ambascia dell’anima.
Oh come erano dolorosi gli addii; e come lunghi i baci, e intense le strette di
mano!... Essi salutavano i cittadini cristiani, e in quel punto dimenticavansi
gli odii religiosi, le differenze di razza, e si abbandonavano al dolore profondo
della sventura, che colpiva coloro che per quattordici secoli erano vissuti
insieme.
Alla
punta estrema della piazza una fanciulla attendea che giungesse il suo turno
per imbarcarsi; era pallida e come abbattuta dal lungo piangere. I grandi e
neri occhi lucevano ancora per l’umido delle lacrime. Accanto a lei la madre
mormorava alcuni versetti di Geremia.
Un
giovane teneva fra le sue mani la bianca e sottile mano della fanciulla...
Luigi Natoli: L'esodo. Fa parte di: La Baronessa di Carini e altri racconti con fatti di sangue.
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