Calato infatti Arrigo VII
di Lussemburgo a coronarsi imperatore, i Ghibellini sperarono di risolvere le
loro sorti. Arrigo si rivolse per aiuti a Federigo, che non aspettava di meglio
per diventar capo del partito ghibellino; e intanto, per punire Roberto, che
per la morte di Carlo II era salito al trono, lo dichiarò decaduto. Federigo
fatto riconoscere per suo erede il piccolo Pietro, partì per la Toscana; ma la
improvvisa morte di Arrigo lo fece ritornare. Questi fatti ruppero la pace.
Roberto con un’armata, presa per tradimento Castellammare, andò ad assediare
Trapani, ma la resistenza dei cittadini, il logoramento dell’esercito, i rigori
invernali, la minaccia di essere assalito, lo persuasero a domandare una
tregua; e tornò a Napoli. Federigo, appena spirata la tregua assalì e riprese
Castellammare. Roberto raccolse un nuovo esercito, gli pose a capo Tomaso
Marziano conte di Squillace, e lo mandò in Sicilia. Questi assediò invano
Marsala difesa da Francesco Ventimiglia, e allora il conte si diede a guastare
le contrade, girando per l’isola; e venuto nelle campagne di Palermo si sfogò a
recidere i bei palmizi e i gelsi e ogni altra pianta, e con questa vittoria
arborea si partì. Né lui né altri capitani allora cercarono di misurarsi con
l’armata siciliana.
A prevenire l’offensiva che
Federigo meditava, il papa Giovanni XXII si intromise per una pace più
durevole, e invitò gli ambasciatori di Sicilia, d’Aragona e di Napoli ad
Avignone, allora sede pontificia. Vi andarono quelli di Sicilia, ma non quelli
di Napoli, e così tutto sfumò. Avendo intanto Federigo aiutato i fuoriusciti
Ghibellini di Genova sotto i Guelfi, che protetti da Roberto, s’erano
impadroniti della repubblica, e fatto coronare re il principe Pietro, il che
era contro la pace di Caltabellotta, il Papa, che stava per l’Angioino, ne
prese pretesto per scomunicare Federigo, colpire la Sicilia d’interdetto, e
riprendere la quistione del titolo di “re di Sicilia” che Federigo aveva
riassunto. Riarse la guerra, e Roberto allestita una flotta di centotredici
galere, di cui trenta genovesi, col figlio duca di Calabria e il fior dei
baroni, lo mandò in Sicilia. Il 26 maggio 1325 il nemico sbarcò nelle campagne
di Palermo: s’accampò sotto le mura, distrusse il parco della Cuba, depredando
e bruciando, e poi diede l’assalto. La città era difesa da Giovanni
Chiaramonte, detto poi il Vecchio, che aveva con sé, tra i baroni, Matteo
Sclafano, Nicolò ed Enrico Abate, Giovanni Calvello, Simone Esculo e tutti i
cittadini animosi. Per tre giorni con ogni macchina e strumento di guerra
Genovesi e Napoletani si travagliarono in assalti, in punti diversi; e per tre
giorni furono con gravi perdite ributtati. E si vide in quei frangenti il
vecchio Chiaramonte, gottoso, farsi trasportare su una sedia qua e là sulle
mura, dove maggiore era il pericolo, a incoraggiare e dirigere la difesa.
Allora rinunziando agli assalti, il nemico cinse la città d’assedio, sperando
prenderla per fame: ma la notizia che sopravveniva a gran giornate Giovanni
Chiaramonte il giovane con altri baroni e buon nerbo di cavalli e di fanti,
persuase il duca di Calabria e gli altri capitani a togliere l’assedio, e a
contentarsi di dare il guasto alle campagne...
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