Dalla
torre di San Nicolò il barone Giacomo Perollo fece sventolare una pezzuola
bianca legata ad una pertica. Don Sigismondo, che comandava in persona
l’assalto da quella parte, ed aveva fatto piantare contro la torre, la vecchia
torre normanna, otto grosse bombarde tolte ai bastioni della città, ordinò
subito che cessassero il fuoco, e spedì suoi messi a Ferrante Lucchesi e
all’Amato, che si travagliano contro la porta di San Pietro.
Il
signor Sigismondo sorrise; finalmente il barone, il superbo Portulano, il
principe, chiedeva mercè; ah quale rivincita sognava egli in mezzo a coloro che
avevano veduto e sentito gli scherni dei cortegiani boriosi! Chiamò Bartolomeo
Tagliavia barone di San Bartolomeo e indetta tolo, lo mandò a parlamento.
Era
il terzo giorno di combattimento, il terzo giorno di stragi e di orrori, a
compiere i quali si spendeva un valore grandissimo degno di una causa assai
migliore.
Don
Sigismondo aveva assalito la porta del Cotogno, Ferrante Lucchesi la porta di
San Pietro, mentre Michele Impugiades coi suoi cavalli attendeva al monastero
delle Giummare, senza mischiarsi alla pugna. Ma la difesa era disperata.
Comandavala Gian Pagolo Perollo che aveva in Francia militato valorosamente
sotto Luigi XII, e con lui operavano prodigi di valore, Gianfilippo e Gerolamo
Perollo: né era giovato agli assalitori l’aver posto l’incendio alla porta del
Cotogno e rotto un muro all’altra; chè una grandine fitta di palle, sassi,
saette, aveva arrestato l’impeto, la ferocia, la bravura del conte di Luna e
dei suoi.
In
mezzo al fracasso delle artiglierie del castello e degli archibugi, tra gli
urli e le apostrofi sanguinose, donna Brigida, la baronessa Perollo, con le
altre donne faceva bende e filacci pei feriti, fondeva il piombo, il rame, i
metalli della casa per farne palle. E queste donne pallide, trepidanti,
correvano per le stanze del castello, che fremeva agli impeti dell’assalto; e
recavano col mesto sorriso, conforto e coraggio ai difensori.
La
notte aveva recato la tregua; ma qual tregua, mio Dio!... Nessuno dormì; il
vecchio castello normanno, non avvezzo a quel nuovo genere di battaglie tremava
tutto; porte cadenti, muri rotti, brecce aperte qua e là; sulla strada, dentro
il recinto del castello, giacevano sanguinosi e pesti i cadaveri; né alcuna
mano pietosa si apprestava a dar loro sepoltura; ed essi rimanevano là
dov’erano caduti, coi pugni serrati, o in atto di mordere la terra, o con gli
occhi spalancati fissi nel cielo terso e stellato come cercando la loro anima
fuggita.
All’alba
fu dato il secondo assalto. Accursio Amato con alcuni guastatori aveva aperto
una breccia che dava nel pianterreno del castello. Mentre gli altri davano la
scalata, egli alla testa di alcuni audaci si cacciò nella breccia. Ma tosto la
stanza si empì di fumo e scoppiarono dieci archibugi: Giacomo Perollo era
accorso con alcuni staffieri a difendere il varco: Accursio Amato cadde ferito
alla testa, cui non valse l’elmo fortissimo; Francesco Sacchetta n’ebbe rotto
un braccio e forato un occhio, onde, bestemmiando pel dolore, diede indietro;
gli altri fuggirono traendosi dietro l’Amato privo di sensi.
Don
Sigismondo mordevasi le labbra per l’ira; a che gli giovava dunque l’aver
radunato tanta copia d’armi, l’aver sacrificato tante vittime, se il suo nemico
era ancor vivo? Vivo? Ed anche salvo!... Sette grosse bombarde, oltre alle
artiglierie minori e agli archibugi difendevano il castello. Come prenderlo? Le
brecce aperte non giovavano a nulla: l’ostinato valore dei difensori aveva fino
allora respinto ogni assalto.
Ed
ecco Pietro Giliberto, Cola Vasco ed altri salgono sui tetti nella casa di
Girolamo Perollo, che fiancheggia il castello; e come dall’alto di una torre,
traggono sulla torre e nel cortile, con grave molestia dei difensori. E don
Sigismondo pone le fiamme alla porta di San Pietro; e Ferrante Lucchesi apre
una breccia nella scuderia. Pare che il castello ceda; tentenna la virtù dei
difensori; ma passano le donne, e ad un tratto cento secchi d’acqua si
precipitano sull’incendio e lo spengono; Ferrante Lucchesi è snidato; gli
archibugieri del signor Giacomo Perollo, dietro i gabbioni e i ripari arrestano
Pietro Giliberto a mezza via; mentre i petrieri traggono dall’alto della torre
seminando la morte nelle file degli assalitori.
Don
Sigismondo rodevasi, percotevasi le tempia per la rabbia, chiamava i suoi
codardi, vigliacchi e peggio; minacciava di ammazzare chi indietreggiasse.
Allora Cola Vasco, si scagliò contro gli archibugieri; una palla gli spezzò la
coscia, cadde riverso nel proprio sangue e minacciava cadendo; dietro a lui
corse Pietro Giliberto; una palla gli attraversò il petto; cadde supino, senza
emettere un grido, senza spargere una goccia di sangue. Le archibugiate
infittivano, lo spavento si sparse tra le file; e a sera stanchi, scorati, gli
assalitori si posarono. Ma cupo, avvelenato dalla collera, roso dall’odio
insoddisfatto, don Sigismondo rimase innanzi al vecchio castello, che rovinoso,
malfermo, aperto da mille parti, resisteva così gagliardamente...
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