mercoledì 2 maggio 2018

Luigi Natoli: Il caso di Sciacca. Tratto da: La Baronessa di Carini e altri racconti con fatti di sangue.


Caso orrendo che lasciò, come il Vespro, memoria durevole nella tradizione popolare, avvenne per la inimicizia di due famiglie potenti, i Luna e i Perollo, del quale fu teatro Sciacca. Nata nei primi del XV secolo per rivalità di ambite nozze, un primo urto avvenne in Sciacca durante i funerali di Martino e l’odio dei padri si trasmise nei figli, Pietro Perollo e Antonio de Luna, e vi diede nuova fiamma una lite pel possesso di una baronia di S. Bartolomeo vinta dal Luna. Per evitar spargimento di sangue si tentò una pace: ma correndo la Settimana Santa del 1459, durante la processione, il Luna fu assalito e percorso da gente armata; ne nacque una zuffa, e si dice che il Perollo, abbattuto il nemico, andasse a devastarne le case e a saccheggiarle. Il Luna si ritirò a Caltabellotta preparando la vendetta, ma il governo intervenne con minacce ed esilio.

Nel secolo XVI erano a capo delle due famiglie Sigismondo de Luna, conte di Caltabellotta, imparentato coi Salviati e coi Medici, e Giacomo Perollo barone di Pandolfina e portulano di Sciacca, il quale abitava nel castello normanno, ed era in buoni rapporti col vicerè Pignatelli.

Or avvenne che a proposito della liberazione dalla schiavitù del barone di Solanto, tenendosi Sigismondo beffato, l’inimicizia fra i due scoppiò.

Avvenne qualche scontro fra i partigiani dell’uno e dell’altro; e spingendo Sigismondo armamenti, ne fu avvertito il Vicerè, che mandò a Sciacca Girolamo Statella qual capitano d’arme, per fare un’inchiesta e provvedere. Ma Sigismondo racconto gran numero di cavalieri e di armati, assoldata una banda di Albanesi, mosse sopra Sciacca la notte del 18 luglio 1519. Aggredita la casa dello Statella, lo uccisero, e uccisero la moglie; corsero poi ad assalire il castello che cadde il 22 dopo tre giorni di assalti, con grande spargimento di sangue. Giacomo Perollo riparatosi in un granaio, scoperto fu ucciso; il cadavere legato alla coda di un cavallo, trascinato per le vie, tra gli schiamazzi osceni dei vincitori e il pianto delle povere donne di Sciacca. Il castello e le case dei partigiani del Perollo vennero saccheggiate; la città parve un deserto.

Allora il governo si mosse, mandando fanti e cavalleggeri e magistrati, ma la gente di Sigismondo resistette con le armi. Cominciarono i processi, e Sigismondo, proclamato reo di delitto capitale, si imbarcò nascostamente con la moglie e coi figli, e partì per Roma, dove implorò perdono dal papa Clemente VII, e intercessione presso l’imperatore Carlo V, che negò, per cui egli disperato s’annegò nel Tevere.

Luigi Natoli: Il caso di Sciacca. 
Fa parte di: La Baronessa di Carini e altri racconti con fatti di sangue. 
Pagine 310 - Prezzo di copertina € 21,00
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online. 
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 


Luigi Natoli: l'assalto al castello di Sciacca (1519). Tratto da: Il caso di Sciacca.


Dalla torre di San Nicolò il barone Giacomo Perollo fece sventolare una pezzuola bianca legata ad una pertica. Don Sigismondo, che comandava in persona l’assalto da quella parte, ed aveva fatto piantare contro la torre, la vecchia torre normanna, otto grosse bombarde tolte ai bastioni della città, ordinò subito che cessassero il fuoco, e spedì suoi messi a Ferrante Lucchesi e all’Amato, che si travagliano contro la porta di San Pietro. 
Il signor Sigismondo sorrise; finalmente il barone, il superbo Portulano, il principe, chiedeva mercè; ah quale rivincita sognava egli in mezzo a coloro che avevano veduto e sentito gli scherni dei cortegiani boriosi! Chiamò Bartolomeo Tagliavia barone di San Bartolomeo e indetta tolo, lo mandò a parlamento. 
Era il terzo giorno di combattimento, il terzo giorno di stragi e di orrori, a compiere i quali si spendeva un valore grandissimo degno di una causa assai migliore. 
Don Sigismondo aveva assalito la porta del Cotogno, Ferrante Lucchesi la porta di San Pietro, mentre Michele Impugiades coi suoi cavalli attendeva al monastero delle Giummare, senza mischiarsi alla pugna. Ma la difesa era disperata. Comandavala Gian Pagolo Perollo che aveva in Francia militato valorosamente sotto Luigi XII, e con lui operavano prodigi di valore, Gianfilippo e Gerolamo Perollo: né era giovato agli assalitori l’aver posto l’incendio alla porta del Cotogno e rotto un muro all’altra; chè una grandine fitta di palle, sassi, saette, aveva arrestato l’impeto, la ferocia, la bravura del conte di Luna e dei suoi. 
In mezzo al fracasso delle artiglierie del castello e degli archibugi, tra gli urli e le apostrofi sanguinose, donna Brigida, la baronessa Perollo, con le altre donne faceva bende e filacci pei feriti, fondeva il piombo, il rame, i metalli della casa per farne palle. E queste donne pallide, trepidanti, correvano per le stanze del castello, che fremeva agli impeti dell’assalto; e recavano col mesto sorriso, conforto e coraggio ai difensori. 
La notte aveva recato la tregua; ma qual tregua, mio Dio!... Nessuno dormì; il vecchio castello normanno, non avvezzo a quel nuovo genere di battaglie tremava tutto; porte cadenti, muri rotti, brecce aperte qua e là; sulla strada, dentro il recinto del castello, giacevano sanguinosi e pesti i cadaveri; né alcuna mano pietosa si apprestava a dar loro sepoltura; ed essi rimanevano là dov’erano caduti, coi pugni serrati, o in atto di mordere la terra, o con gli occhi spalancati fissi nel cielo terso e stellato come cercando la loro anima fuggita. 
All’alba fu dato il secondo assalto. Accursio Amato con alcuni guastatori aveva aperto una breccia che dava nel pianterreno del castello. Mentre gli altri davano la scalata, egli alla testa di alcuni audaci si cacciò nella breccia. Ma tosto la stanza si empì di fumo e scoppiarono dieci archibugi: Giacomo Perollo era accorso con alcuni staffieri a difendere il varco: Accursio Amato cadde ferito alla testa, cui non valse l’elmo fortissimo; Francesco Sacchetta n’ebbe rotto un braccio e forato un occhio, onde, bestemmiando pel dolore, diede indietro; gli altri fuggirono traendosi dietro l’Amato privo di sensi. 
Don Sigismondo mordevasi le labbra per l’ira; a che gli giovava dunque l’aver radunato tanta copia d’armi, l’aver sacrificato tante vittime, se il suo nemico era ancor vivo? Vivo? Ed anche salvo!... Sette grosse bombarde, oltre alle artiglierie minori e agli archibugi difendevano il castello. Come prenderlo? Le brecce aperte non giovavano a nulla: l’ostinato valore dei difensori aveva fino allora respinto ogni assalto. 
Ed ecco Pietro Giliberto, Cola Vasco ed altri salgono sui tetti nella casa di Girolamo Perollo, che fiancheggia il castello; e come dall’alto di una torre, traggono sulla torre e nel cortile, con grave molestia dei difensori. E don Sigismondo pone le fiamme alla porta di San Pietro; e Ferrante Lucchesi apre una breccia nella scuderia. Pare che il castello ceda; tentenna la virtù dei difensori; ma passano le donne, e ad un tratto cento secchi d’acqua si precipitano sull’incendio e lo spengono; Ferrante Lucchesi è snidato; gli archibugieri del signor Giacomo Perollo, dietro i gabbioni e i ripari arrestano Pietro Giliberto a mezza via; mentre i petrieri traggono dall’alto della torre seminando la morte nelle file degli assalitori. 
Don Sigismondo rodevasi, percotevasi le tempia per la rabbia, chiamava i suoi codardi, vigliacchi e peggio; minacciava di ammazzare chi indietreggiasse. Allora Cola Vasco, si scagliò contro gli archibugieri; una palla gli spezzò la coscia, cadde riverso nel proprio sangue e minacciava cadendo; dietro a lui corse Pietro Giliberto; una palla gli attraversò il petto; cadde supino, senza emettere un grido, senza spargere una goccia di sangue. Le archibugiate infittivano, lo spavento si sparse tra le file; e a sera stanchi, scorati, gli assalitori si posarono. Ma cupo, avvelenato dalla collera, roso dall’odio insoddisfatto, don Sigismondo rimase innanzi al vecchio castello, che rovinoso, malfermo, aperto da mille parti, resisteva così gagliardamente...


Luigi Natoli: Il caso di Sciacca. Fa parte di: La Baronessa di Carini e altri racconti con fatti di sangue. 
Pagine 310 - Prezzo di copertina € 21,00
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venerdì 20 aprile 2018

Luigi Natoli: il matrimonio del conte di Geraci con Costanza Chiaramonte. Tratto da: Mastro Bertuchello.


Nella Pasqua del 1322, in un torneo tenutosi nelle feste per la coronazione dell’infante Pietro, che re Federico si associava al trono, messer Francesco Ventimiglia vide a un palco, fra altre dame, la fanciulla dei Chiaramonte, Costanza.

Era così bella, così gentile, così affascinante, che messer Francesco non potè non ammirarla. Certamente ella sarebbe stata una degna contessa di Geraci. Avrebbe recato non soltanto la beltà e la ricchezza, ma anche lo splendore di un nome, che in quei giorni sopravanzava su tutti. Il suo orgoglio si destò: l’idea di quelle nozze, che da prima aveva scacciato come assurda, cominciò a sembrargli conveniente e possibile. Ci pensò sopra.
- Ci son baroni traditori, – insinuava il vecchio servitore; – ai quali il re confisca i feudi. Il vostro Franceschello potrebbe ottenerne l’investitura, e diventare il capo stipite di un’altra branca dei Ventimiglia, conservando le vostre armi, aggiungendovi la sbarra di bastardo, per distinguersi dal ramo legittimo: e voi, messere, avreste così assicurato l’avvenire dei vostri figli, allargata la vostra casa di nuovi rami, accresciuta la vostra potenza. Il re stesso sarebbe da meno di voi.
Batti oggi, batti domani, la vinse. Messer Francesco domandò la mano di madonna Costanza, e giammai nozze suscitarono tanto consenso e tante invidie, quanto quelle, che salirono alla importanza di un avvenimento storico. Esse furono celebrate nel maggio di quell’anno con pompa regale.
Madonna Margherita non si oppose, non si dolse, non si adirò. Quando il conte un po’ impacciato le annunziò la necessità di quelle nozze, chinò il capo rassegnata, il conte non vide il lampo che quei begli occhi sfolgorarono prima di chinarsi, né le lagrime che luccicavano tra le palpebre. Vide quella sommissione inaspettata, quella mansuetudine silenziosa, e se ne commosse.

Quando messer Francesco verso sera, se ne fu andato, Madonna Margherita si gittò sul letto piangendo disperatamente di dolore, di collera, di gelosia. I sogni che aveva vagheggiato per sé e pei figli svanivano. Ella non sarebbe mai stata altro che la ganza del nobile conte, e i suoi figli, bastardi. Altri avrebbe raccolto l’eredità che ella aveva sperato pel suo Franceschello; quella Madonna Costanza avrebbe con le sue carezze obbligato il conte a scacciare la povera amante. Tradita, abbandonata, forse miserabile, che sarebbe stato di lei? Che dei figli?

Urlava, percotendosi il capo, maledicendo l’intrusa, ardente d’odio e di gelosia, confondendo nello stesso sentimento anche il conte:

- Ah! Tu credi che io mi rassegni? Che io mi lasci portar via tutto? T’inganni! T’inganni!...

Volle passare dinanzi alla casa di messer Francesco: attraverso una finestra vide un lume; pensò che lì forse era la camera nuziale, e che in quel momento Costanza offriva la bella e fresca bocca giovanile ai baci di messer Francesco; e allora alzò i pugni minacciosi verso la finestra, gridando:

- Che il tuo grembo sia maledetto come un terreno sterile; che le tue gioie si tramutino in pianto! Sposa di maggio, non godrai del cortinaggio!


Luigi Natoli: Latini e Catalani vol 1. - Mastro Bertuchello
pagine 575 - Prezzo di copertina € 22,00
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lunedì 19 marzo 2018

Luigi Natoli: Donna Laura Lanza. Tratto da: La signora di Carini.


Donna Laura aveva in quel tempo trentasei anni, ma sebbene fosse madre di otto figliuoli, pareva assai più giovane. Don Cesare, il suo primogenito, che aveva quasi venti anni, poteva parere un suo fratello minore. 
Ella era nel pieno splendore di una bellezza giunta a quella maturità piena di seduzioni sapienti che invano si cerca nelle giovani donne. Per quanto la moda le comprimesse il corpo col busto stretto e lungo di vita, e la forma delle braccia sparisse dentro le maniche a sbuffi, pure il collo, la gola, la turgidezza dei seni rivelavano una carnosità, non abbondante, ma colma e piena di sussulti e vibrazioni. I suoi occhi profondi, umidi, avevano il fascino del dolce peccato: il suo sorriso aveva incanti suggestivi di desideri: tutta la sua persona pareva modellata dalle dita divine del piacere. 
Era di casa Lanza. Il padre, don Cesare Lanza primeggiava in Palermo per autorità: era stato quattro volte pretore, aveva sostenuto ambascerie, aveva goduto la fiducia dell’imperatore Carlo V, e ne aveva ricevuto prove. 
Nel 1543 donna Laura, giovanissima, era andata moglie a don Vincenzo la Grua Talamanca, barone di Carini. Il matrimonio era stato fecondo. In undici anni essa gli procreò otto figliuoli, di cui l’ultima contava ora nove anni. Questo potrebbe far supporre che ella amasse il marito; ma nessuno ha avuto mai l’occhio così acuto e penetrante da scendere nelle profondità misteriose del cuore della donna. 
Certo in quegli undici anni si mostrò amorosa verso don Vincenzo, e se non ebbe slanci e impeti di passioni, non gli fu avara di carezze, né gli dimostrò freddezza. Anche quando il suo grembo si chiuse alla maternità, serbò pel marito quella soggezione amorevole e affettuosa, che teneva la casa in una tranquillità invidiabile. 
A tempo dell’ultimo suo parto era stato combinato il matrimonio di Caterina, ed essa lo aveva accolto con piacere, secondando la volontà del marito. Si era detto dapprima che le nozze si sarebbero celebrate appena compiuta l’età voluta dalle leggi canoniche; ma donna Laura aveva trovato che era troppo presto. 
- Dodici anni?... ma è ancora bambina!...
Sì, conveniva che molti matrimoni si stringevano in quell’età semiinfantile, che non può dare neppur la coscienza delle gioie; ma perché turbare così presto il candore di quell’anima e di quel corpo non ancora adatto all’amore?
Forse in queste osservazioni v’era una specie di segreto rimpianto, pensava che anche essa era stata condotta all’altare giovanissima, appena sedicenne; e che allora i suoi sensi dormivano, ed ella non comprese nulla, non provò nessuna gioia, non sentì sussultare i suoi sensi, né fremere di desideri. 
Era una cosa. Una cosa inerte, nelle mani di un uomo che se ne serviva. I suoi sensi non si destarono che molti anni dopo; ma quando non avevan più misteri da penetrare; e l’amore non aveva loro preparato il dolce e vago corteo dei sogni...   

Perché si era affacciata? Quale oscuro istinto l’aveva trascinata alla grande finestra della torre, donde si dominava la campagna fertilissima, degradante fino al mare, fra Capo Gallo e la Punta di Raisi, e di qua e di là monti cerulei, violacei, coperti alle falde da boschi folti di un verde cupo, velato nelle lontananze? 
Donna Laura vide Ludovico avviarsi pel suo feudo, mantenendo il cavallo al passo, come per indugiarsi ancora; vide Ludovico voltarsi un’altra volta, a guardar la torre prima di svoltar dal sentiero; e una vampa di sangue le salì al cervello.
Quella notte non dormì, agitata da torbide visioni. Acuti desideri le pungevano il sangue: ella si sentiva presa da impeti vertiginosi che le ottenebravano la coscienza...


Luigi Natoli: La signora di Carini. Leggenda pubblicata per la prima ed unica volta nel Giornale di Sicilia del 31 agosto 1910. 
Fa parte di: La Baronessa di Carini e altri racconti con fatti di sangue. 
Pagine 310 - Prezzo di copertina € 21,00. 
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Luigi Natoli: La Baronessa di Carini e altri racconti con fatti di sangue.


L’alba saliva bianca e serena dietro la curva schiena d’Ustica; un venticello freddo e sottile aveva nella notte spazzato le nuvole; solo su l’orizzonte si allungavano a strisce ineguali due o tre lembi cinerei, che rigavano in bruno il chiarore del mattino. 
La postierla del castello si aprì, come un occhio nero su la muraglia tetra, il cavaliere Vernagallo uscì, avvolgendosi nell’ampio mantello; dietro a lui su la soglia apparve donna Caterina. Si presero per le mani, guardandosi teneramente.
Laggiù sull’orizzonte il cielo si colorava; su tutte le cose si stendeva una leggera indoratura; le nuvolette, come ampii petali di rose vagavano nell’azzurro: ella teneva gli occhi rivolti al cielo e la mente all’amore, termine estremo di ogni suo pensiero. Quella era stata la prima notte dolorosa per lei; le parole del frate, l’accento minaccioso, lo spettro di un castigo futuro, tutto ciò le aveva gittato il turbamento nell’anima: ella aveva raccontato all’amato la scena avvenuta nel dopopranzo, e don Vincenzo aveva tentato di rassicurarla; ma fra lei e il cavaliere, ella vedeva intromettersi la torva e minacciosa immagine del frate. Allora si era tuffata tutta nel desiderio, per dimenticare fra le braccia del bel cavaliere, fra le carezze dell’amante, l’angoscia segreta e paurosa che la tormentava.
Ella correva dietro al suo sogno, cercandolo tra le nubi dorate che erravano nel cielo; quando un frequente scalpitare di cavalli distolse gli occhi suoi.
Guardò giù nel piano; un gruppo di cavalieri che ella non distingueva ancor bene, saliva già la collina; uno di essi andava innanzi, incitava il cavallo, come per infondergli lena; il cavallo incurvava la nobile testa sul petto fumante, ed allungava il passo su lo scosceso sentiero che serpeggiava fra le rupi.
Donna Caterina guardava con sospettosa curiosità; chi potevano essere quei cavalieri? E quale urgenza li pungeva? E che venivano a cercare nel castello? Quando furono più vicini, il cavaliere che andava innanzi levò la testa in su. Donna Caterina trasalì; un fremito ghiacciato serpeggiò per le vene; le gambe le tremarono; stette come inchiodata dal terrore nel balcone.
Aveva riconosciuto suo padre.
Perché ella tremava? Non lo sapeva, al di sopra della cavalcatura le era sembrato di veder sogghignare il volto di frate Arcangelo. Era forse la punizione che giungeva?


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Luigi Natoli: l'incontro con donna Caterina. Tratto da: La Baronessa di Carini.


Quella era la prima domenica di marzo; una domenica chiara e luminosa, alla quale i mandorli fioriti davano la loro dolce fragranza.

Il signor don Vincenzo fin dall’alba si trovava nella madre chiesa, dove supponeva che donna Caterina sarebbe venuta ad ascoltar la santa messa, avendo in quella chiesa i La Grua sepoltura gentilizia. Aveva già udito due o tre messe, circondato da una folla di contadini neri e feroci, che tra le vesti mostravano l’impugnatura di un coltellaccio o di una falcetta, e tra le mani avevano rosari e discipline. Egli però era così preoccupato, era così sopraffatto dal suo pensiero, che prestava poca attenzione alle sacre funzioni; e una volta, all’elevazione, una divota scandalizzata di quel contegno da eretico, non seppe tenersi dall’avvertirgli che era tempo di inginocchiarsi. Don Vincenzo aggrottò le ciglia, ma arrossì, quale chi è scoperto mentre commette un fallo; si inginocchiò divotamente, ma dimenticò poi di levarsi, e restò genuflesso finchè durò la messa.

Finalmente un bisbiglio sommesso lo riscosse; guardò verso la porta; da una grande lettiga scendevano donna Caterina, le sue sorelle donna Eleonora e donna Maria e donna Laura sua madre. Entrarono in chiesa, seguite da Jacopo Saponara e da altri tre paggi. Gli schiavi lettighieri rimasero fuori. Don Vincenzo, che stava presso la pila dell’acqua benedetta, dimenticò allora ogni convenienza; voltò le spalle all’altare maggiore, non vedendo nella chiesa altro Iddio che la soave fanciulla; e col volto in fiamme, con cortese premura, tuffò le dita nella pila dell’acqua benedetta, e inchinandosi, porse la mano prima a donna Laura, poi alle ragazze, e all’ultimo, dopo aver rituffato le dita, a donna Caterina. Così era sicuro che le dita delle altre non potevano cancellare la impressione soave che la mano della fanciulla lasciava nella sua.

Elle, sorridendo, presero l’acqua: solo donna Caterina non sorrise: bianca come un giglio, avvolta nel suo mantello, stese e toccò appena la mano di don Vincenzo. egli trasalì, sentì un fremito per tutta la persona; ella non parve che leggermente sorpresa di trovare quel gentil cavaliere, e lo guardò curiosa.

Andarono a sedere nelle loro sedie di cuoio, accanto all’altar maggiore; donna Caterina aveva un libro di devozioni; aprendolo, domandò sottovoce alla signora donna Laura:

- Non è nostro cugino Vernagallo quel cavaliere?

- Don Vincenzo – rispose la signora baronessa.
Donna Caterina cercò nel libro le preghiere; ma dopo letto il primo rigo si voltò per guardare il cugino Vernagallo. Egli era rimasto in piedi, immobile, a canto alla pila dell’acqua benedetta: il suo volto era diventato pallido, ma negli occhi suoi s’era raccolta la intensa passione che lo divorava. Innanzi a quella fanciulla bianca e serena come una statua, il suo piano rovinava; aveva contato su l’acqua benedetta per accompagnare le signore e avere un pretesto di stare accanto a donna Caterina e vagheggiarla a suo agio; adesso l’anima sua tremava e sentiva mancarsi tutto il coraggio. La guardava da quel sito con un desiderio amaro, con una angoscia piena di amore. Quando donna Caterina si voltò verso di lui, quando vide quei grandi occhi turchini posarsi dolcemente sopra i suoi, egli trasalì, sentì il sangue dargli un tuffo nel cuore e nella testa, e gli occhi gli si annebbiarono...


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Luigi Natoli: Il piede del Crocifisso. Tratto da: La Baronessa di Carini e altri racconti con fatti di sangue.



Un giorno, era nel 1219, dalle moltitudini del Monte Carmelo giungeva ad Alessandria un vecchio eremita: pallido, affranto dal lungo viaggio, egli non chiese un ospizio per posare le membra, né un’osteria per rifocillare le forze; i suoi occhi sfavillavano di una luce strana: egli chiese dove fosse il palazzo del patriarca, di Anastasio palermitano, della nobile famiglia dei Chiaramonte.
E quando egli fu al conspetto del patriarca:
- Padre, benedicimi! – disse – io sono Angelo eremita; vengo da Monte Carmelo; recomi per divin volere a Palermo... Ho avuto una visione, ho visto il Signor nostro, che mi ha detto: – Sorgi, o figlio, e portati ad Alessandria: ivi il vescovo ti darà la mia immagine scolpita da Nicodemo, le reliquie di Giovanni Battista, di Geremia profeta, di Giorgio, e l’immagine della Madre mia, dipinta da Luca; affinchè trasportati in Italia, si sottraggano al furore degli empi. Ed eccomi a te, o padre; benedicimi, e compi il volere di Dio!
Atanasio abbracciò il frate, si inginocchiò e sclamò:
- Te beato, o figliolo, cui la pietosa opera fu affidata!
E così Angelo ebbe il prezioso carico ed entrò in mare; e dopo avere alquanti dì navigato, giunse in Palermo, e cercò il fratello di Atanasio, il magnifico Federico Chiaramonte, signore di Caccamo, cavaliere di Papa Onorio III, e difensore della Fede.
Quando si seppe di questa venuta, in folla trasse il popolo al porto, parendo a ognuno uno speciale favore del cielo. E il Crocifisso in solenne processione attraversata la città vecchia, per la porta di Bosuemi passò nella Brigaria e di lì nella Kalsa, fino alla chiesa di S. Nicolò dove era la cappella dei Chiaramonte. Ed ivi fu deposto il bel Crocifisso di Nicodemo nell’anno 1220.

Passano cento anni: altra gente è a Palermo, altri usi. Francesco Antiocheno è arcivescovo, e Manfredi Chiaramonte il più potente barone dell’isola. 
Un bel giorno Manfredi, che sognava sempre nuovi favori da concedere ai suoi concittadini, fa levare il Crocifisso di Nicodemo, e l’offre in regalo alla Cattedrale. 
- Non è giusto che l’opera sì illustre, anzi divina, abiti una cappella privata: appena gli è degna stanza la vasta cattedrale gotica. 
E una processione più grande, più ricca della prima, più solenne, trasporta il simulacro. I canonici in paramenti lo ricevono sulla porta d’ingresso, e fra il salmodiar grave e il fumo degli incensi, la sacra effigie è condotta per le navate della chiesa. 
Ma alla folla non basta l’aver accompagnato l’effigie; i più vicini hanno avuto la ventura di baciare i piedi crocifissi, ma i lontani? Tutti vogliono godere lo stesso favore; gli ultimi sospingono quelli che sono avanti; né gli arcieri di Manfredi Chiaramonte bastano a sostenere l’urto de la folla; nessuno vuole andare a casa senza aver baciato i piedi del Redentore; onde Francesco Antiocheno, ordina che la folla stia da una delle navate, e a uno per volta vengano a baciare i piedi del Crocifisso, che vien deposto sopra gli scalini di un altare...

Nella foto: Il Crocifisso della Cattedrale, cui è ispirata la leggenda. 



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