giovedì 22 febbraio 2018

Luigi Natoli: L'esodo. Tratto da: La Baronessa di Carini e altri racconti con fatti di sangue.

La giornata era plumbea; tutta la notte era piovuto, e le strade eran rigate da rivoletti fangosi. Le acque della Cala torbide ed agitate si orlavano di una spuma gialliccia; e le galee all’ancora si dondolavano sui fianchi. Per l’aria si sentiva l’umidore freddo della stagione, e tutte le case intorno avevano un color grigio pieno di tristezza. Il castello sorgeva sul porto, coi suoi cannoni massicci, le sue bombarde, i suoi terrapieni coperti di un’erba verde, che nell’ombra grigia di quel mattino invernale metteva una nota di gaiezza primaverile.
Il porto, a Piedigrotta e per la piazza che si estendeva innanzi al Castello, era gremito di gente. I Giudei della Giudecca di Palermo si affrettavano a partire: con loro quelli delle città interne dell’isola, venuti il giorno innanzi in Palermo per quell’esodo doloroso.
Avevano tutti il taled con la rotella rossa sulla spalla, le donne recavano il segno cucito sul petto; aggiravansi in silenzio per la spiaggia, guardandosi mestamente, guardando il mare, le galee, l’orizzonte, poi, dall’altro lato, le torri, le cupole, le case, i monti lontani. Di quando in quando giungeva una frotta di Giudei stanchi, infangati; venivano da qualche lontana Giudecca; i compagni li accoglievano in silenzio, senza muoversi dal posto; si guardavano, scotendo il capo, e ogni nuovo fratello che sopravveniva, aumentava la fierezza del dolore universale.
In disparte gli ufficiali del governo sopraintendevano all’imbarco: i soldati castigliani appoggiati alle alabarde, guardavano senza mostrar commozione alcuna; intorno, frammisti agli ebrei si aggiravano i cittadini, alcuni mossi della curiosità, altri punti da pietoso sentimento, altri dall’amicizia.
Venne l’ora. Essi non avevano robe da caricare sulle galee; il re non aveva lasciato altro a loro che le vesti che avevano indosso, e un miserabile assegno, per non gravarsi la coscienza di averli fatti morire di fame. Qualcuno recava con sé alcune masserizie, legate in un fazzoletto, e reggeva su la spalla l’involto infilato a un bastone.
Cominciarono a entrar nelle barche. Alcuni vinti dall’emozione sentivano empirsi gli occhi di lacrime, e romper in singhiozzi il petto; altri nascondevano la faccia tra le mani; pochi conservavano una certa fierezza, celavano l’ambascia dell’anima. Oh come erano dolorosi gli addii; e come lunghi i baci, e intense le strette di mano!... Essi salutavano i cittadini cristiani, e in quel punto dimenticavansi gli odii religiosi, le differenze di razza, e si abbandonavano al dolore profondo della sventura, che colpiva coloro che per quattordici secoli erano vissuti insieme.
Alla punta estrema della piazza una fanciulla attendea che giungesse il suo turno per imbarcarsi; era pallida e come abbattuta dal lungo piangere. I grandi e neri occhi lucevano ancora per l’umido delle lacrime. Accanto a lei la madre mormorava alcuni versetti di Geremia.
Un giovane teneva fra le sue mani la bianca e sottile mano della fanciulla...


Luigi Natoli: L'esodo. Fa parte di: La Baronessa di Carini e altri racconti con fatti di sangue. 
Pagine 310 - Prezzo di copertina € 22,00
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Luigi Natoli: il bando voluto da Torquemada che cacciò gli ebrei da Palermo il 12 gennaio 1493 - Tratto da: L'Esodo.


Sotto il viceregno di Ferdinando de Acuna, giunto in Palermo il 28 febbraio 1489, avvenne un fatto memorando per tutti gli stati della monarchia. Era in Spagna e alla Corte divenuto potentissimo fra Tomaso Torquemada, domenicano, fanatico fino alla ferocia, che fisso nell’idea di purificare il cattolicesimo, aveva riformato l’Inquisizione, e creato quel terribile Istituto, che acquistò dominio su tutto il Regno e sui Sovrani stessi. Musulmani ed ebrei eran la lebbra che bisognava distruggere col fuoco. Nell’animo del Re si confusero la superstizione e la necessità di denaro, sì che cedette alle insistenze violente e minacciose del frate, il quale, pretese che il Re cacciasse gli Ebrei da tutti gli Stati. Il bando fu promulgato il 31 marzo del 1492 ed ordinava che uscissero fra tre mesi, ma lasciando denari, vasellami e ogni loro cosa, per quanto misera. I miseri tentarono ottenere la sospensione offrendo grandissima somma, ma il feroce Torquemada non volle: e il Re ubbidì. Circa settantamila ne partirono dall’Aragona: parecchie migliaia che si erano convertiti, forse in apparenza, accusati di professare occultamente la religione degli avi, furono bruciati vivi.
In Sicilia fu notificato il bando del 31 marzo. Qui, preti fanatici avevano già suscitato qualche tumulto, nel quale era stato ucciso il sommo sacerdote degli Ebrei, ma in generale questi erano tollerati, e godevano di qualche benefizio, quando giunse l’ordine fatale. Essi supplicarono il Vicerè, che era di buon animo e incline a giustizia, e le loro suppliche furono appoggiate da lettere del Senato, che li difendeva dalle accuse, e mostrava i danni economici che sarebbero avvenuti. Fu vano. Non ottennero dal Re, mercè denaro, che una dilazione, e dovettero partire il 12 gennaio del 1493, non altro portando che un misero letto, gli abiti che avevano indosso, e tre tarì pel nolo della nave. I miseri scacciati da un Re cristiano, trovavano ricovero a Roma, sede della cristianità! E Ferdinando in merito della pia rapina ebbe il soprannome di Cattolico. 
Il Sant’Offizio fu qui introdotto nel 1487 dal frate Antonio della Pegna; ma non c’è notizia di roghi anteriori al 1506, quando già il Sant’Offizio vi esercitava incontrastato il suo ministero. 
Il secolo si chiudeva, lasciando la Sicilia povera, schiacciata dalle imposte, mal governata, esposta alle piraterie, terrificata dai roghi, sempre più appartata dall’Italia...


Luigi Natoli: L'esodo. Fa parte di: La Baronessa di Carini e altri racconti con fatti di sangue. 
Pagine 310 - Prezzo di copertina € 21,00
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online. 
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Nella foto: il bando del 31 marzo 1492 

Luigi Natoli: Un poemetto siciliano del XVI secolo. Tratto da: La baronessa di Carini e altri racconti con fatti di sangue.


A nessun componimento della nostra letteratura popolare è toccata la sorte di avere tanti e così diligenti illustratori e imitatori, come a quel tragico poemetto, che corre sotto il nome di Baronessa o Principessa di Carini; al quale l’orrore del fatto, unico forse nella letteratura del popolo, la pietà verso la vittima, il grado e la notorietà dei personaggi e sopra tutto la incomparabile bellezza della forma rappresentativa conferirono una meritata celebrità.
Il fatto tramandato dalla tradizione è questo: un principe di Carini uccise la figlia, perché si amoreggiava celatamente con un giovane; la figlia, fuggita di stanza in stanza, cadendo ferita, appoggiò la mano insanguinata sopra una parete, e vi lasciò una impronta, che nessuna calce potè mai cancellare....

Fra i documenti il più antico, vera testimonianza storica, è la breve notizia del diario di Nicolò Palmerino e Filippo Paruta; notizia troppo semplice e indeterminata, per dar luce all’avvenimento; e che non consente alcuna seria argomentazione in favore dei particolari della leggenda. La notizia dice con esattezza cronologica: “1563, Sabato a 4 di dicembre. Successe il caso della signora di Carini. “Caso” nelle cronache e nella dizione di quei tempi adoperarono i nostri scrittori nel significato di grande e straordinario avvenimento, con uccisione e morte di persone: “Caso di Sciacca” si disse la lotta civile che insanguinò quella città nel secolo XVI; “Caso di Del Carretto” o “di Castronovo” una strepitosa vendetta presa da un conte Del Carretto sopra alcuni di casa Barresi. 
Il nome della vittima, “Caterina”, in documenti, appare soltanto nelle notizie raccolte dall’Auria, la cui vita letteraria cominciò nel 1648; e che scrisse o trascrisse le sue notizie, quando già correvano strofe del poemetto col nome della supposta eroina.
Sulla scorta delle due note dei cronisti e con la guida del poemetto, il Salamone-Marino si pose con diligenza a frugare gli archivi di casa La Grua e di casa Vernagallo, e le sue ricerche furono o parvero coronate da lieto successo. Egli infatti trovò che nel 1563 era barone di Carini don Vincenzo La Grua e Talamanca, il quale dalla moglie, donna Laura Lanza dei baroni della Trabia, sposata nel 1543, aveva avuto otto figlioli; secondogenita dei quali Caterina, che all’epoca della tragedia avrebbe avuto intorno ai diciotto anni. Trovò ancora che da Ludovico Vernagallo, sposo di Elisabetta La Grua, zia di don Vincenzo, nacquero sette figli (nove secondo il Mugnoz) dei quali Vincenzo, partito da Palermo, morì nel 1582 a Madrid; dove, vestito l’abito di frate carmelitano, era stato assunto all’ufficio di confessore del re.
Tanta ricchezza di particolari, l’identità dei nomi, le corrispondenze fra alcune parti del poemetto raccolte dalla bocca del popolo, e i dati forniti dai documenti trovati negli archivii, produssero una lieta e viva impressione; e così il testo del poema, come la dolorosa storia della bella figlia di Vincenzo La Grua passarono intatti e indiscussi nella comune accettazione.
Se non che negli ozi letterari così mali consiglieri, la mente curiosa, ripiegandosi sul lavoro altrui, si esercita a verificare, riscontrare, giudicare: e allora cominciano ad affacciarsi i dubbii; che invece di vanire, diventano più consistenti; l’edificio con tanta pazienza e con tanta ingegnosità costruito dall’erudito raccoglitore della leggenda, comincia ad apparire non così solido come si riteneva. I primi dubbi non si riferirono all’autenticità del poemetto, ma alla autenticità dei personaggi: il Pitrè infatti, ristampando la seconda edizione dei Canti popolari, appose al poemetto una lunga nota, nella quale senza mettere in dubbio che una tragedia domestica avesse macchiato di sangue il castello di Carini, opinò che non un parricidio, ma che piuttosto si trattasse di un uxoricidio, che cioè la vittima così dolcemente e gentilmente rappresentata nel poema dovesse essere non la figlia, ma la moglie; non parendogli spiegabile il parricidio per un fallo d’amore che poteva essere riparabile; e non conveniente a fanciulla il titolo di “donna”; obbiezione quest’ultima che si era affacciata anche al De Gubertis....


Luigi Natoli: Un poemetto siciliano del XVI secolo. Estratto dagli Atti della Reale Accademia di Scienze, Lettere ed Arti di Palermo serie III Vol. IX.
Fa parte di: La baronessa di Carini e altri racconti con fatti di sangue. 
Pagine 310 - Prezzo di copertina € 21,00
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martedì 20 febbraio 2018

Luigi Natoli: messer Francesco Ventimiglia, conte di Geraci. Tratto da: Mastro Bertuchello


Poco meno di due anni prima, un tragico avvenimento, che, per la qualità del personaggio che ne fu vittima, commosse tutta l’isola, aveva disorientato mastro Bertuchello, o lo aveva obbligato ad abbandonare il suo paese e a mutare il suo mestiere. 

La catastrofe che aveva ucciso il conte di Geraci, dispersa la sua famiglia, e spartiti fra’ i suoi nemici i feudi, era stata così la repentina,così travolgente, che il povero maestro di scuola, dopo due anni, ne risentiva lo spavento e l’orrore, e non poteva non riparlarne. E probabilmente la sua avversione verbale per le donne, più che dà malanni procurati a lui, traeva origine dalla parte che le donne rappresentarono in quella catastrofe.
Messer Francesco Ventimiglia, conte di Geraci, vantava sangue regio. Una tradizione di famiglia, che però non è avvalorata da alcun documento, gli attribuiva discendenza dai principi della Casa d’Altavilla: certo le armi dei Ventimiglia erano quelle stesse dei re normanni di Sicilia: lo scudo d’azzurro traversato da una fascia a scacchi alternati bianchi e rossi.
Messer Francesco era uno dei più potenti signori del reame; il suo vasto dominio si stendeva dal mare fino sopra le Madonie.
Al tempo della catastrofe comprendeva una ventina di feudi, Sperlinga, Pollina, Castelbuono, Golisano, Gratteri, Sant’ Angelo, Malvicino, Tusa, Castelluccio, le due Petralie, Gangi, S. Marco, Belici e altre terre minori e casali, lo riconoscevano signore: alla sua casa,per diritto ereditario concesso dai re, spettava l’ufficio di Gran Camerario, una delle sei o sette dignità supreme del regno.
L’amicizia e la protezione di chi gli era largo al re Federigo, che lo aveva incaricato di ambasceria pel papa, e lo aveva dato compagno al principe Pietro nella escursione in Toscana, lo avevano fatto conte di Geraci: i servigi sedi da lui al re e al regno travagliato dalle continue pretensione della corte angioina, la ricchezza, l’ampiezza della stato ne avevano fatto il personaggio più rispettato, più temuto, più invidiato. Non poteva dire di essere amato o di godere salde amicizia. Non se le accattivava. facile agli impeti, violento, instabile nelle relazione, vago di piaceri e di novità, superbo della sua nobiltà, spregiatore degli altri, generoso fino alla prodigalità e nel tempo stesso geloso dei suoi diritti, prode, irriflessivo, era un impasto di buone e di cattive qualità...


Luigi Natoli: Mastro Bertuchello. Latini e Catalani vol. 1
Pagine 575 - Prezzo di copertina € 22,00.
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online.
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Luigi Natoli: è tempo di far conoscere noi a noi stessi.


Ora mi par che sia tempo far conoscere noi a noi stessi; perché ci conoscan meglio gli altri; imparare a stimarci, perché gli altri ci stimino; mostrare quel che fummo, quel che facemmo, perché non ci si tratti più da popolo barbaro e conquistato. Mi par che sia tempo di far conoscere che la Sicilia ha dato al mondo qualcosa di più, e di più alto, e di più nobile, che non quella mafia voluta e reggimentata dai governi dal 1860 in poi, e che è la sola cosa che noi sciagurati, ed i continentali, ingiusti, facciamo conoscere. 
I nostri giovani apprendono, per esempio, a stimare Ferruccio che a Volterra ferito si fa trasportare in una sedia, tra i combattenti; ma ignorano che nel 1325, per tre giorni, Giovanni Chiaramonte il vecchio ammalato, difese e salvò Palermo contro Angioini, Papalini e Genovesi facendosi trasportare in un lettuccio! Apprendono come nacquero e progredirono le discordie in Firenze, e non sanno nulla delle tragedie che insanguinarono la Sicilia, per le discordie fra i Chiaramonte e i Ventimiglia, fra Catalani e Latini. 
Conoscono Masaniello e ignorano Giuseppe d’Alesi: e ignorano la lunga serie di cospirazioni, di rivolte, di sacrifici per la indipendenza; ignorano che qui, prima che altrove il pensiero laico ebbe la sua manifestazione; che da questa isola nel rinascimento uscivano maestri di diritto e di lettere umane all’Italia e alla Spagna; che innanzi ai nostri ambasciatori si spalancavano a due battenti le porte della reggia di Granata, e che nella corte universale di Roma, essi avevano posto dopo quelli di Francia, Germania e Spagna e prima anche di quelli di Venezia potentissima; ignorano che l’Aquila di Sicilia, sui mari, nel lungo duello contro il musulmano, si recingeva di allori non meno gloriosi di quelli raccolti dal Leone di S. Marco. 
Queste e molte altre cose ignorano i giovani nostri, che pur non ignorano quanti mariti ebbe Lucrezia Borgia....

Luigi Natoli

Luigi Natoli: gli assedi di Roberto d'Angiò e la difesa dei baroni siciliani. Tratto da: Mastro Bertuchello.


Calato infatti Arrigo VII di Lussemburgo a coronarsi imperatore, i Ghibellini sperarono di risolvere le loro sorti. Arrigo si rivolse per aiuti a Federigo, che non aspettava di meglio per diventar capo del partito ghibellino; e intanto, per punire Roberto, che per la morte di Carlo II era salito al trono, lo dichiarò decaduto. Federigo fatto riconoscere per suo erede il piccolo Pietro, partì per la Toscana; ma la improvvisa morte di Arrigo lo fece ritornare. Questi fatti ruppero la pace. Roberto con un’armata, presa per tradimento Castellammare, andò ad assediare Trapani, ma la resistenza dei cittadini, il logoramento dell’esercito, i rigori invernali, la minaccia di essere assalito, lo persuasero a domandare una tregua; e tornò a Napoli. Federigo, appena spirata la tregua assalì e riprese Castellammare. Roberto raccolse un nuovo esercito, gli pose a capo Tomaso Marziano conte di Squillace, e lo mandò in Sicilia. Questi assediò invano Marsala difesa da Francesco Ventimiglia, e allora il conte si diede a guastare le contrade, girando per l’isola; e venuto nelle campagne di Palermo si sfogò a recidere i bei palmizi e i gelsi e ogni altra pianta, e con questa vittoria arborea si partì. Né lui né altri capitani allora cercarono di misurarsi con l’armata siciliana.
A prevenire l’offensiva che Federigo meditava, il papa Giovanni XXII si intromise per una pace più durevole, e invitò gli ambasciatori di Sicilia, d’Aragona e di Napoli ad Avignone, allora sede pontificia. Vi andarono quelli di Sicilia, ma non quelli di Napoli, e così tutto sfumò. Avendo intanto Federigo aiutato i fuoriusciti Ghibellini di Genova sotto i Guelfi, che protetti da Roberto, s’erano impadroniti della repubblica, e fatto coronare re il principe Pietro, il che era contro la pace di Caltabellotta, il Papa, che stava per l’Angioino, ne prese pretesto per scomunicare Federigo, colpire la Sicilia d’interdetto, e riprendere la quistione del titolo di “re di Sicilia” che Federigo aveva riassunto. Riarse la guerra, e Roberto allestita una flotta di centotredici galere, di cui trenta genovesi, col figlio duca di Calabria e il fior dei baroni, lo mandò in Sicilia. Il 26 maggio 1325 il nemico sbarcò nelle campagne di Palermo: s’accampò sotto le mura, distrusse il parco della Cuba, depredando e bruciando, e poi diede l’assalto. La città era difesa da Giovanni Chiaramonte, detto poi il Vecchio, che aveva con sé, tra i baroni, Matteo Sclafano, Nicolò ed Enrico Abate, Giovanni Calvello, Simone Esculo e tutti i cittadini animosi. Per tre giorni con ogni macchina e strumento di guerra Genovesi e Napoletani si travagliarono in assalti, in punti diversi; e per tre giorni furono con gravi perdite ributtati. E si vide in quei frangenti il vecchio Chiaramonte, gottoso, farsi trasportare su una sedia qua e là sulle mura, dove maggiore era il pericolo, a incoraggiare e dirigere la difesa. Allora rinunziando agli assalti, il nemico cinse la città d’assedio, sperando prenderla per fame: ma la notizia che sopravveniva a gran giornate Giovanni Chiaramonte il giovane con altri baroni e buon nerbo di cavalli e di fanti, persuase il duca di Calabria e gli altri capitani a togliere l’assedio, e a contentarsi di dare il guasto alle campagne...



Luigi Natoli: Mastro Bertuchello. 
Pagine 575 - Prezzo di copertina € 22,00
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online. 
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Luigi Natoli: Federigo d'Aragona e la pace di Caltabellotta. Tratto da: Mastro Bertuchello.


Dopo tanti insuccessi tra Carlo di Valois e Roberto d’Angiò, si convenne di trattare la pace. Per le trattative corsero alquanti giorni: infine furon conchiuse e giurate a Caltabellotta il 31 agosto 1302.
Con esse si lasciava la Sicilia a Federigo, finchè fosse vissuto, col titolo di re di Trinacria, patto disonorevole: gli si dava in moglie Eleonora figlia del re Carlo d’Angiò; i figli sarebbero stati re di Sardegna e di Cipro: Federigo doveva rendere le terre occupate sulla penisola e Carlo quelle occupate in Sicilia. 
La Sicilia, che dopo venti anni di guerra era esausta, ne giubilò: Bonifazio dovette frenarsi. Promulgata la pace si fecero feste, ed è fama che a un convito, sedendo Nicolò Palizzi fra Roberto e il Valois, e questi avendogli domandato che cosa avrebbe fatto, se l’assedio avesse reso impossibile la difesa di Messina, ebbe risposta: “Messere, consumato l’ultimo boccone di carne di cavallo e di cane, avremmo ucciso le donne, i vecchi, i bambini, e avremmo dato fuoco alla città per morire tra le sue rovine come quelli di Sagunto”. E Carlo a Roberto: “Vedi chi volevamo vincere! Bene è stata la pace!”.


Luigi Natoli: Mastro Bertuchello. 
Pagine 575 - Prezzo di copertina € 22,00
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online. 
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 

Luigi Natoli: Il caso di Sciacca. Tratto da: La Baronessa di Carini e altri racconti con fatti di sangue.

Caso orrendo che lasciò, come il Vespro, memoria durevole nella tradizione popolare, avvenne per la inimicizia di due famiglie potenti...